Una somma forfettaria di 25 milioni subito a carico dell’Italia, più 30 milioni di penalità per ogni semestre di ritardo. È questa la maxi multa imposta al nostro Paese dalla Corte di Giustizia europea per non aver messo a norma decine di centri urbani, i quali risultano essere ancora sprovvisti di reti fognarie o sistemi di trattamento delle acque reflue.
Le acque, cosiddette reflue, sono quelle di scarico, ossia l’acqua utilizzata per scopi umani, quindi domestici, industriali o agricoli, che essendo contaminata da sostanze organiche e inorganiche, non è idonea per essere utilizzata, se non con appositi trattamenti che purtroppo mancano in quasi tutta Italia.
Non è la prima volta che l’Italia viene condannata su questo versante, era già successo nel 2012, e ad oggi il Belpaese ha in corso due procedure di infrazione per lo stesso motivo, una delle quali ha portato a una prima sentenza nel 2014.
Dalla prima sentenza di condanna [sono passati ormai sei anni, Sic!] in Italia sono stati messi a norma solo 35 agglomerati su 109 in vista del trattamento delle acque reflue, è evidente quindi che il Paese sia ancora in clamoroso ritardo rispetto alle indicazioni europee.
Con l’arrivo della stagione calda, soprattutto al Sud e in Puglia, tristemente nota per le crisi idriche, il tema della scarsità di acqua peserà in maniera preponderante, e in questo senso il riutilizzo delle acque reflue per scopi irrigui o industriali, è uno degli strumenti con cui attuare una razionale e sostenibile gestione delle risorse idriche.
L’agricoltura, tra tutti, eÌ€ ad oggi il settore produttivo che piuÌ€ frequentemente ne fa ricorso nelle stagioni estive, in quanto soggetto in maniera significativa agli effetti della carenza idrica: il riutilizzo per scopi irrigui è fondamentale per rendere economicamente e ambientalmente sostenibile il settore agricolo, soprattutto in Puglia, ma purtroppo la Regione non ha mai investito seriamente in questa politica virtuosa e più in generale, non si è mai avvantaggiato il settore agricolo. Basti pensare che in agro di Monteparano esiste l'invaso del Pappadai costruito appositamente per raccogliere l'acqua proveniente dal fiume Sinni, per poi distribuirla ai campi agricoli. Costato oltre 200 milioni di euro di soldi pubblici, a 25 anni dall'avvio della costruzione è ancora inutilizzato e abbandonato all'incuria. L'acqua del Sinni è intercettata dall'Ilva e non arriva al Pappadai. Il paradosso è che proprio l'Ilva, da oltre dieci anni, avrebbe dovuto utilizzare l'acqua affinata proveniente dai depuratori di Taranto grazie a un investimento pubblico di circa 14 milioni di euro ma ancora oggi i depuratori Gennarini e Bellavista non forniscono acqua per le attività industriali. Ad aggravare la situazione c'è il fatto che attualmente i due depuratori tarantini, al netto dei sequestri e delle irregolarità nel fuzionamento, non hanno affinazione e quindi scaricano in mare tutto il carico di reflui con il minimo della depurazione.
In generale, in Italia subiamo una preoccupante situazione infrastrutturale, che è causa primaria del mancato riuso delle acque reflue in alcune regioni italiane. Anche le difficoltaÌ€ tecniche nel trasferimento delle risorse idriche possono essere superate attraverso l’intervento pubblico, ossia un piano straordinario di investimenti nel settore idrico contro la deriva proposta dai diversi Governi che si sono succeduti in questi anni.
Tutto questo risulterebbe essere un volano per gli investimenti in questo settore, ma solo con la garanzia che questi vengano effettuati con trasparenza e sotto il controllo delle comunità che vivono nei territori, al fine di assicurare a tutta la popolazione la distribuzione nelle case e nei luoghi di lavoro di acqua salubre.
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